MICRODOSI, FUNGHI E “TERAPIE ALTERNATIVE”: QUANDO LA DROGA SI TRAVESTE DA CURA

Negli ultimi anni, il fenomeno del microdosing LSD si è diffuso rapidamente, soprattutto tra giovani adulti e adolescenti. Sui social e nei podcast si moltiplicano testimonianze di chi afferma di sentirsi più produttivo, creativo e sereno grazie all’assunzione regolare di microdosi di sostanze psichedeliche come l’LSD o la psilocibina (principio attivo dei funghi allucinogeni). Ma quanto c’è di vero dietro questa nuova frontiera del “benessere fai-da-te”? E soprattutto: quali rischi corrono i più giovani che si avvicinano a queste pratiche, spesso senza alcun filtro critico o scientifico? In questo articolo proviamo a fare chiarezza, evitando allarmismi ma senza nascondere le zone d’ombra.

 

Che cos’è il microdosing e perché ne parlano tutti

Il microdosing consiste nell’assunzione di quantità estremamente ridotte (non percettibili a livello psicoattivo) di sostanze psichedeliche come LSD o psilocibina, in genere ogni tre o quattro giorni. L’idea alla base è semplice: sfruttare presunti effetti benefici di queste sostanze — come maggiore concentrazione, umore migliorato o creatività aumentata — senza arrivare ad alterare la percezione della realtà o sperimentare allucinazioni.
Il fenomeno è nato nell’ambito delle startup della Silicon Valley, dove alcuni lavoratori del settore tech hanno iniziato a parlarne pubblicamente come metodo per potenziare la propria produttività e affrontare lo stress. Da lì, complici social come TikTok e YouTube, il microdosing è diventato una moda anche tra i giovanissimi, spesso affascinati dal mix tra “chimica”, spiritualità e neuroscienze fai-da-te.

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I benefici reali? Per ora la scienza invita alla cautela

Molti sostenitori del microdosing affermano di sentirsi più calmi, lucidi, concentrati. Alcuni dicono di aver trovato sollievo da ansia, depressione o disturbi dell’attenzione. Ma quando si entra nel campo della ricerca scientifica, il quadro si fa decisamente meno nitido.
Diversi studi preliminari — come quelli condotti dall’Università di Chicago e dal Beckley Foundation in UK — non sono riusciti a dimostrare con certezza che i benefici percepiti abbiano una base farmacologica concreta. Anzi, in molti casi gli effetti sono comparabili a quelli del placebo: cioè, chi assume una sostanza “finta” sperimenta miglioramenti simili a quelli di chi prende la microdose reale.
Inoltre, mentre alcune ricerche stanno esplorando l’uso della psilocibina per trattare depressione resistente o ansia terminale, lo fanno in contesti clinici altamente controllati, con medici e psicoterapeuti presenti. È importante distinguere tra uso terapeutico sperimentale e consumo personale non supervisionato, soprattutto tra i minori.

 

I rischi per i giovani: dietro la promessa, molte incognite

Una delle maggiori preoccupazioni riguarda la sottovalutazione dei rischi reali, soprattutto da parte di adolescenti o giovanissimi.
Il primo problema è la scarsa regolazione: chi acquista LSD o funghi psichedelici online o da fonti non controllate non ha alcuna garanzia sulla purezza o sul dosaggio delle sostanze. Una “microdose” potrebbe facilmente trasformarsi in una dose attiva, con effetti psicotropi forti e imprevedibili.
In secondo luogo, va considerato che il cervello degli adolescenti è ancora in fase di sviluppo. Anche quantità minime di sostanze psicoattive possono avere effetti sull’umore, la memoria e la percezione di sé. Alcuni studi suggeriscono che l’uso regolare di psichedelici può portare a stati ansiosi o depressivi persistenti, soprattutto se c’è una predisposizione latente a disturbi mentali.
Infine, va sfatato il mito della “non dipendenza”: è vero che sostanze come LSD non causano dipendenza fisica, ma possono generare una forma di dipendenza psicologica. In altre parole, alcune persone iniziano a sentirsi incapaci di funzionare bene o affrontare la giornata senza assumere la propria microdose.

 

Un’illusione di benessere: perché attira così tanto?

L’aspetto forse più insidioso del microdosing è la sua narrazione positiva e rassicurante. Sui social, le testimonianze sono spesso accompagnate da immagini di persone sorridenti, ambienti naturali, riferimenti alla mindfulness o alla “guarigione interiore”. Il messaggio implicito è che si tratti di una pratica salutare, quasi una forma di auto-aiuto evoluto.
Per molti ragazzi, questo messaggio arriva proprio nel momento in cui si sentono più fragili o sotto pressione. La scuola, le aspettative familiari, la performance sportiva o sociale possono diventare fonte di disagio emotivo. L’idea che esista una “pillola naturale” capace di restituire equilibrio, lucidità o motivazione può essere molto attraente.
Proprio per questo è importante offrire alternative credibili: spazi di ascolto, attività scolastiche di riflessione, laboratori sulle emozioni, occasioni per sperimentare la propria creatività o spiritualità in modo autentico e sicuro.

 

 

Come parlarne con i ragazzi: strategie educative efficaci

Affrontare il tema del microdosing con i ragazzi richiede delicatezza ma anche chiarezza. Non serve alzare la voce o lanciare messaggi terrorizzanti: il punto non è spaventarli, ma aiutarli a ragionare criticamente.

Alcuni suggerimenti:
• Usare esempi concreti, senza generalizzare: “Alcuni influencer parlano del microdosing, ma sai che le ricerche non lo confermano ancora?”
• Coinvolgere le emozioni, non solo le informazioni: “Perché secondo te un adolescente potrebbe aver bisogno di una ‘spinta’ per sentirsi bene?”
• Promuovere attività di confronto, anche tra pari: role-playing, laboratori di storytelling, dibattiti guidati.
• Proporre figure di riferimento accessibili: educatori, psicologi, testimonial autentici (meglio se giovani) che possano raccontare esperienze senza giudizio.

Nei contesti scolastici o educativi, un buon punto di partenza può essere la collaborazione con associazioni o sportelli d’ascolto, come Il Borgo del Sapere, per progettare momenti formativi dedicati alla prevenzione delle nuove dipendenze.

 

 

Non tutte le mode fanno bene

Il microdosing LSD, presentato da alcuni come una “cura miracolosa”, resta oggi un territorio incerto e rischioso. La scienza non ha ancora confermato i benefici, e i potenziali effetti collaterali — soprattutto nei giovani — sono ancora oggetto di studio.
Proprio per questo serve una nuova forma di educazione alla complessità: capace di parlare ai ragazzi, ascoltarli davvero e offrir loro strumenti per leggere la realtà con occhio critico. Non basta dire “non farlo”: bisogna aiutarli a capire perché non è la scorciatoia giusta.